La parola Pasqua deriva dall’ebraico antico e significa
“passaggio”.
E’ uno dei miti fondatori dell’autocoscienza del popolo di
Israele, fondato sul racconto biblico dell’Esodo. Secondo la ricostruzione
teologica dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme, dopo trecento anni di
permanenza in Egitto, i discendenti del patriarca Giacobbe sarebbero stati
miracolosamente liberati dalla schiavitù. Guidati da Mosè e assistiti dal
“loro” Dio, avrebbero provocato una decina di sciagure sui sudditi del faraone,
attraversato il Maro Rosso spalancato davanti ai loro occhi increduli e rinchiuso
sui carri e cavalli del Potere, trascorso quaranta anni nel deserto del Sinai
prima di approdare – non senza conflitti con le popolazioni locali – nella
Terra Promessa. Ogni anno il pio israelita rivive tutte queste vicende
celebrando il rito della cena pasquale, nel corso della quale non solo
“ricorda”, ma anche rende di nuovo presente tutto ciò.
I cristiani si collegano direttamente con l’antico Israele,
dal momento che nel corso di una cena pasquale, Gesù avrebbe sostituito il
sacrificio dell’agnello con quello della sua stessa vita. Nello stesso tempo,
avrebbe indicato nella condivisione del pane e del vino la sua presenza nel
tempo e nello spazio. Il rito eucaristico, nelle intenzioni della testimonianza
della comunità cristiana della fine del I secolo raccolta nei quattro vangeli,
avrebbe quindi lo scopo di rendere di nuovo presente, sotto forma di memoria,
l’arresto del Maestro nel Getzemani, la salita al Pretorio, i dialoghi con
Ponzio Pilato, gli stracciamenti di vesti di Caifa e dei sacerdoti, la via
crucis, la deposizione nel sepolcro e la risurrezione, all’alba del giorno di
Pasqua.
Il mito è la narrazione che stabilisce una specifica
identità storica, il rito il gesto che lo vivifica nel corso degli anni. Quando
il rito perde di intensità o si cristallizza nel formalismo, il mito tende a
scomparire dall’orizzonte della storia, così come la dimenticanza del mito, nel
tempo trasforma il rito in folklore. E’ ciò che sembra accadere anche al
cattolicesimo contemporaneo. La maggior parte dei sedicenti fedeli non conosce
più il valore del rito – basti pensare al fatto che una minima percentuale
partecipa alla più importante celebrazione dell’anno, quella della notte del
sabato santo – di conseguenza non attinge più i criteri etici, estetici e
logici dal mito. E’ forse per questo che in un Paese nel quale tuttora la
stragrande maggioranza delle persone risulta battezzata e una molto minore
percentuale praticante, sorprende il fatto che sia così poco presente la
dimensione della Speranza e della Misericordia, valori che dovrebbero derivare
direttamente dalla fede in una misteriosa e peraltro creduta reale Risurrezione
dalla morte.
Ed è così che proprio da chi dovrebbe realizzare nella
propria vita gli ideali del vangelo giunge una clamorosa contro-testimonianza.
Se il vangelo presenta un Gesù che predica la nonviolenza assoluta (porgi
l’altra guancia…), gli assertori dei “valori cristiani” propongono il riarmo
dell’Europa come difesa della sua presunta “identità”. Se il Nazareno mette in
discussione ogni forma di Potere, molti neocristiani sono piegati davanti alla
potenza del Capitalismo. Se il Maestro abbraccia e accoglie ogni essere umano,
i politici che si ispirano alla fede cristiana costruiscono campi di
concentramento in Albania e rafforzano le sbarre dei Cpr, dove sono rinchiusi i
migranti.
Solo se si affermeranno la pace e la nonviolenza a costo di
perdere la propria vita, solo se la giustizia e l’accoglienza trionferanno
sugli squallidi interessi economici e pseudopolitici, il rito tornerà a essere
significativo e il mito rinnoverà la sua immensa originaria forza vitale.
Buona Pasqua allora!
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